martedì 31 gennaio 2017

La letteratura italiana e la Bibbia. Un'intervista con Sonia Gentili sul libro "Novecento scritturale"

Librobreve intervista #74

Sonia Gentili, professoressa di Letteratura italiana all'università La Sapienza di Roma, risponde nell'intervista che segue ad alcune domande relative alla sua recente pubblicazione intitolata Novecento scritturale. La letteratura italiana e la Bibbia (Carocci, pp. 264, euro 24). Nelle risposte si affronta l'opera di più scrittori tra cui Giacomo Leopardi, Elsa Morante, Mario Pomilio (anche se escluso dalla trattazione del libro), Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori e Vitaliano Brancati. Non mancano i riferimenti a autori o pensatori stranieri e tra questi anticipiamo i nomi di Eliot, Lévinas, Auerbach, Dostojevsky, Bulgakov, Frye con il suo celebre studio The Great Code: The Bible and Literature. Lo studio di Sonia Gentili coglie sicuramente un aspetto centrale e una costante, sulla quale non si arriva quasi mai a riflettere con tenace costanza. L'auspicio è che la conversazione che potete leggere qui sotto funzioni da invito alla lettura del libro.


LB: Parto dal titolo dell'opera: si menziona inequivocabilmente il secolo Ventesimo, circoscrivendo così un orizzonte temporale, ma poi si comincia con Leopardi. Passaggio inevitabile? Sì, passaggio inevitabile vien da dire dopo aver letto. Ma potrebbe spiegare perché la partenza con Leopardi a chi non ha ancora letto il libro?
R: Il Novecento ha un suo prologo leopardiano poiché è rivolto all’antico in quanto origine del proprio linguaggio, e tuttavia sottopone questa origine ad una interrogazione radicale : condotta senza sconti e senza paura di distruggere. Questo rapporto con l’antico come ricerca di un linguaggio originario a cui si vorrebbe tornare, ma di cui si denuncia l’impossibilità per i moderni, lo dobbiamo appunto a Vico e Leopardi. In Leopardi questo spietato esame della tradizione anticipa e fonda il miglior realismo novecentesco poiché è antimetafisico: comporta la cancellazione dell’uomo in generale, cioè del soggetto astratto e universale di stampo illuministico –idealistico, e la scoperta dell’individuo particolare in carne e ossa, con la sua povera realtà di bisogno e di dolore. Tutta la tradizione culturale è passata al vaglio di questa semplice realtà: di fronte alla domanda senza risposta e senza riscatto costituita dal dolore del singolo essere vivente, tutta la tradizione classica e cristiana, i provvidenzialismi, le metafisiche e gli antropocentrismi crollano o si ridisegnano. È Leopardi a riscrivere il Genesi trasformando il mondo tohù va vohù, «informe e vuoto», che nella Bibbia è lo stato iniziale dell’universo, nella condizione permanente ed antiprovvidenziale del mondo : la «terra desolata» compare nella letteratura europea almeno un secolo prima di Eliot, su base biblica e ad opera di Leopardi. Col grande poeta e filosofo recanatese la teodicea smette di essere un esercizio intellettuale e diventa il vero e sofferto ‘processo a Dio’ – basta leggere il Bruto minore - che ritroveremo a metà Novecento, dopo gli orrori nazisti.

LB: Di tutti gli autori trattati nel suo volume (e sono molti e tra questi nomino almeno Pascoli, Bassani, Testori, Primo Levi e Pasolini), vorrei che qui riprendesse e sintetizzasse le linee principali sulle quali ha costruito le pagine dedicate a Elsa Morante.
R: La lettura morantiana della Bibbia è esemplare: ha come oggetto una Bibbia concreta – la copia personale che scrittrice ebbe con sé tutta la vita e postillò incessantemente - , la prima Bibbia “manuale” (oggi diremmo tascabile) italiana (La sacra Bibbia pubblicata a Firenze nel 1929 a opera della Libreria Editrice Fiorentina della Cardinal Ferrari S.A.I) concepita negli anni Venti per battere la concorrenza delle piccole Bibbie riformate, che in Italia circolavano già abbondantemente. La scrittrice risponde puntualmente alla sollecitazione degli editori –quella cioè di una lettura personale e continua – ma mostra un’indipendenza intellettuale che non sarebbe piaciuta a costoro.   La Morante coglie un punto essenziale della concezione paolina dell’amore e la riflette nel primo verso della poesia Alibi («Solo chi ama conosce. Povero chi non ama») praticamente coincidente con l’inizio del Pianto della scavatrice pasoliniano («Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia / il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più»). Le due poesie, pubblicate nel 1958, e nella stessa collana dell’editore Longanesi, dipendono con ogni probabilità dalla stessa fonte paolina  attraverso una comune rielaborazione : i due scrittori, legati da una forte amicizia, intrecciano riflessioni su temi biblici almeno fino alla collaborazione morantiana al Vangelo secondo Matteo
In Paolo amare significa conoscere, ma la sinonimia completa dei due termini si produce solo nell’escatologia individuale e collettiva: amare significa essere conosciuti da Dio (1 Cor 8, 1) e, di conseguenza, iniziare a conoscere oscuramente, attraverso un’immagine riflessa e in stato enigmatico, ciò che dopo la morte si vedrà «faccia a faccia» (1 Cor 13, 12). Paolo ha una concezione attiva e passiva al contempo, in quanto interpersonale e reciproca, dell’atto gnoseologico: amare/conoscere presuppone l’essere amati/conosciuti[1]; ecco perché in quel «solo chi ama conosce», parafrasi morantiana e pasoliniana di 1 Cor 8, 1 («qui diligit […] cognitus est», leggermente tradito dal «chi ama […] è riconosciuto» della Bibbia Ferrari), cognitus est/riconosciuto è reso all’attivo, come il primo verbo amat/ama.
Da questo punto di vista, la gnoseologia paolina comporta una strutturale distanza dalle teorie della conoscenza di tradizione greca, centrate sulla distinzione netta tra soggetto e oggetto: la gnoseologia paolina presuppone due soggetti-oggetti, fondati dal loro essere soggettività-oggettività in rapporto reciproco. Quest’idea dell’essere attraverso l’altro, di forte tradizione ebraica, ha circolato negli anni Trenta anche in sede etico-filosofica generale, poiché Emmanuel Lévinas l’ha opposta alla metafisica nazista del sé assoluto (Quelques réflexions sur la philosophie de l'hitlérisme, 1934).

LB: Naturalmente scrivere un libro del genere significa compiere delle scelte e, come già detto nella domanda precedente, sono già molti gli autori trattati. Mi ha comunque colpito l'assenza di Mario Pomilio in un libro che parte da questi presupposti. Si tratta di un autore che rientra o può rientrare nel suo "radar" di studi?
R: Il Quinto Evangelio è un’opera straordinaria, ma affrontare questo testo significa anzitutto inquadrarlo nel gigantesco tema letterario europeo del dibattito sulla natura di Cristo, che ben prima della pièce teatrale gemella al romanzo di Pomilio compare nel Maestro e Margherita del grande Bulgakov. Parlare di questo tema avrebbe significato insomma allontanarsi dalla testualità biblica e affrontare il capitolo del Cristo come mito o come realtà nella cultura filosofica novecentesca, che a partire da Ernest Rénan (Vie de Jésus, 1863) dilaga, e che presso gli scrittori diventa il simbolo di uno scientismo cieco, su cui il mistero (non necessariamente la fede: piuttosto il mistero, l’inconoscibilità) celebra puntualmente la propria vittoria. È questa la vendetta e il fine di Woland, il diavolo bulgakoviano che decide di soggiornare per un po’ sulla terra: togliere agli scienziati e ai marxisti moscoviti le loro piccole certezze scientifiche.

LB: Da lettore non mi risulta difficile riscontrare l'attività sottotraccia o anche manifesta del Vecchio Testamento nell'immaginario dal quale scaturiscono nuove opere di narrativa o poesia. Sul fronte neotestamentario invece cosa emerge dalla sua analisi?
R: Per riassumere all’estremo, si tratta soprattutto di due punti: il primo è il mistero evangelico dell’incarnazione, che costituisce una delle fonti concettuali più feconde del realismo novecentesco, via Auerbach e non solo (centrali, in questo senso, sono le elaborazioni letterarie della Morante, di Pasolini e di Testori: i capitoli 4 e 5 del libro).  Il secondo è il giganteggiare del “dossier san Paolo” nel Novecento: non solo, cioè, l’abbondanza di rielaborazioni dei testi paolini, ma anche la rappresentazione del personaggio di Paolo, l’esemplarità della sua vicenda intellettuale. Discendono da testi paolini l’opposizione tra apocalissi e carità in Pascoli, la mostruosa esaltazione della guerra come carità nei testi dei preti guerrafondai come Semeria e Gemelli durante la Grande Guerra, o la concezione dell’amore-conoscenza morantiano e pasoliniano. Il personaggio di Paolo è invece centrale in Pasolini e nella riflessione politica novecentesca: il «conflitto tra il santo e il prete», come Pasolini stesso diceva, cioè tra santità e politica, tra il Cristo dell’amore e quello della violenza necessaria alla realizzazione del cristianesimo in terra, inequivocabilmente predicato dallo stesso Cristo (Mt 10, 34-36 : «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada : sono venuto a mettere il figlio contro il padre e la figlia contro la madre e la nuora contro la suocera; saranno nemici quelli della stessa casa» ). La questione della violenza neotestamentaria e paolina è centrale per tutte le culture rivoluzionarie novecentesche.

LB: Credo che le sia capitato di fare l'esercizio di proiettare l'impianto di questo suo saggio su una qualche letteratura straniera (e nel suo libro certi rimandi a altre letterature non mancano). Quale genere di indagine le piacerebbe compiere se solo potesse imbarcarsi in una simile avventura in una letteratura straniera?
R: Le due letterature straniere capitali per il tema nel Novecento sono quella tedesca, a causa dell’enorme rilevanza del mito faustiano, e quella russa, per la centralità degli ideali sociali cristiani nella fase storica di elaborazione del pensiero socialista e comunista; qui i tre giganti sono naturalmente Tolstoj, Dostojevski e Bulgakov, ma c’è molto altro. Personalmente però sono interessata soprattutto alla riflessione sui limiti del linguaggio - quella che nel libro è affidata al capitolo 6- e sull’inesprimibilità del mistero (non necessariamente quello divino)  condotta nel Novecento su base biblica. La poesia di Eliot e la riflessione linguistico-musicale di Arnold Schoenberg sono rapidamente toccati nel mio sesto capitolo, ma su questi autori, soprattutto in relazione alla questione della poesia, vorrei tornare più distesamente.

LB: Potrebbe consigliare cinque titoli affini alla sua ricerca o comunque a essa fortemente legati (eventualmente anche provenienti dall'estero)? (Penso sia importante infatti iniziare a costruire una bibliografia sulla fondamentale componente biblica dei nostri immaginari letterari.)
R: Devo dire che la gran parte delle indagini disponibili su questo tema hanno il limite del repertorio citazionistico: studiano cioè il testo biblico non in quanto portatore di concetti e forme colti nel loro mutare storico, ma come «grande codice»: è questo il titolo di un celeberrimo studio di Northrop Frye sulla Bibbia come fonte letteraria (The Great Code, 1982). Mi limito ad indicare questo studio, importantissimo per il ruolo storico che ha svolto, ma responsabile di aver inaugurato una pratica “repertoriale” della citazione biblica che la sottrae ai suoi significati antichi e moderni, insomma al suo senso storico e assoluto. Le opere interpretative dedicate alla fonte biblica nella letteratura oggi disponibili ereditano tutte, quale più e quale meno, questo limite: registrano citazioni, ma si sforzano troppo poco di intrepretarne il senso.

LB: Il volume si conclude con un'interessante cronaca e analisi delle vicende che riguardarono il testo teatrale di Vitaliano Brancati La governante. Che genere di conclusioni trae e possiamo trarne?
R: Il contrasto tra la ricchezza poetica e intellettuale delle Scritture – che apprezzo profondamente da non credente – e la lettura spesso banalizzante e “riduzionistica” contrabbandatane dalle varie Chiese (non solo quella cattolica: anche le Chiese riformate, che pure hanno propugnato la lettura libera della Bibbia, non sono state da meno) è sempre tragicomico e sommamente interessante. Anche l’annaspare, talvolta ingenuo, degli scrittori tra libertà e bisogno di essere spiritualmente guidati nella propria lettura della Bibbia, fino a farsi involontario strumento di politiche ecclesiastiche non proprio nobilissime - come libro accadde al Pascoli del primo capitolo e al Pasolini del settimo – è di enorme interesse e meriterebbe uno studio monografico.




[1] «Cognoscam sicut et cognitus sum»; la Bibbia Ferrari amplifica il passo a scopo esplicativo interpolando due parole estranee al testo che pongo tra quadre: «conoscerò [per intiero], come [anch’io] sono stato conosciuto» (VulgClem, 1 Cor 13, 12). 

Nessun commento:

Posta un commento