domenica 26 marzo 2017

"Appartamenti o stanze" di Carmen Gallo: sull'ordinario e sull'alterità

Questo libro è un dossier in poesia sull'ordinario. Sgombriamo però il campo da conclusioni affrettate: parliamo di un certo ordinario, straniato eppure presentissimo e fisso, il quale non è solo dato della quotidianità e tantomeno è dato di quella quotidianità poco interessante e persino rozza che ha popolato, fino quasi a infestarli, molti tentativi di poesia recenti. Il contrario dell’ordinario poi non è lo straordinario o il fantastico. Nemmeno i sentimenti hanno esatti contrari, figuriamoci certe definizioni che riguardano “la realtà”. A quest'autrice le sensazioni d'ubriacatura o stordimento riconducibili all'ordinario e alle sue pressioni epidermiche sono note, riguardano il suo pensiero continuo e il suo porsi fra luoghi appartati, scene, persone e superfici che molto spesso si toccanoSi è scritto di ubriacatura, ma questo libro è estremamente lucido, persino liscio. Qui, come nei versi più duraturi delle epoche moderna e contemporanea, allignano relazioni e situazioni minimali appartenenti a un regno di mezzo situato proprio fra ordinario e ordinario, tra stanza e stanza, corridoio e corridoio, dentro o fuori. Il più delle volte riconosciamo questo regno come spazio murato (e il soffitto è un altro muro da cui guardare, qui come nel precedente libro Paura degli occhi), del quale si traccia nella scrittura una planimetria più o meno abitata. Ma abitata da chi? Dipende. In questo vago interregno vediamo sgattaiolare i fantasmi della mente coi loro passi felpati, le loro scene senza audio o i loro rumori senza immagini da abbinare, e poi allucinazioni, intervalli di suoni e silenzio. La rivelazione e le sovrastimate "epifanie" - se ha ancora senso nominarle in un contesto come la poesia che si regge sonoramente sull'immagine - sono un fatto acustico prima ancora che visivo? Sempre in sede di introduzione si può ricordare che la poesia di Emily Dickinson ha introdotto a questi temi meglio di ogni altro discorso, sancendo un legame quasi indissolubile tra la mente e gli spazi che questa percorre. Anzi, quella è la poesia degli spazi che la mente stessa diventa e occupa.

Interpreta questo prepotente desiderio d’essere e di registrazione della scrittura il breve libro proposto dalla seconda serie de “i miosotìs” delle edizioni d’if, un'opera che si srotola fra l'altro sotto un'epigrafe dickinsoniana. Per il passo "ONE need not be a chamber to be haunted, / One need not be a house; / The brain has corridors surpassing / Material place", l'autrice - che si occupa anche di traduzione, soprattutto del Seicento metafisico inglese - ha scelto "mente" e non con la più facile opzione di "cervello". Appartamenti o stanze di Carmen Gallo (pp. 56, euro 16) si pronuncia quindi mentre visita gli interregni che abbiamo nominato e sfronda in poche pagine e pochi testi una delle più intricate questioni aperte: la presenza delle persone singolari/plurali nel testo poetico (rimaniamo ai fantasmi pertanto). Nella fruizione e nell’analisi critica di un testo di poesia fanno quasi sempre capolino le persone: dall’"io" (quasi sempre passato per "io lirico"), al "tu" ormai passato per essere "montaliano", dal "noi" al "voi" isolato persino in un titolo di un libro di Umberto Fiori, il ragionamento su persone e pronomi non dà giustamente tregua. Non la deve dare. Queste persone sono i personaggi della poesia quando non è epica, e poco o nulla hanno a che vedere coi personaggi del romanzo, del teatro o degli schermi. Questo è anche però un libro di molte terze persone, che magari si rimpiccioliscono e poi si ingrandiscono enigmaticamente nel giro di uno stesso frammento.


Leggiamo, prima ancora di soffermarsi sui testi, una parte dell'utile nota apposta dall’autrice:

A certe storie basta una scena sola, ad altre ne servono di più per spingersi nel tempo. Nella prima sezione siamo noi a descrivere i personaggi. Noi siamo la terza persona. Quando non riusciamo più a vedere cosa succede, diventiamo una prima persona plurale, ma dura poco. Nell’ultima sezione c’è una donna che parla in prima persona, e prova a rivolgersi a un tu. L’ultima voce è sua.
Certe scene sono sinestesie di secondo grado, come nei versi "Solo le labbra continuano / a guardarci e a domandare." Si legge e si ricava a tutta prima un'impressione di sordità che ascolta ("[...] L'aria adesso / sale dal pavimento, l'uomo sparge i passi...") e di cecità che vede qualcosa che sarebbe impossibile vedere con occhi normali ("Le persone intorno ai tavoli / sono andate ad abitare / uno spazio chiuso, laterale."). A certe storie si allude soltanto, fra labbra che possiamo immaginare, e forse è opportuno riportare almeno un testo per intero, per dar conto della tenuta complessiva di uno dei frantumi che compongono l'opera:
L’uomo è rientrato in casa
rompendo il vetro con il gomito.
Ha sistemato i tavoli e ha preparato un caffè
alle donne che dormono in un angolo.
Appena sveglie hanno raccontato
la storia dell’uomo accuratamente lacerato.
L’uomo ha fatto a pezzi il giornale
e ha pianto. Le donne hanno urlato
e sono diventate piccolissime.
L’uomo le sistema una sopra l’altra
e chiude la porta della stanza.
La donna bianca sente le voci
ma non distingue i giorni.
Quando arriva nella stanza
le donne tornano grandi e urlano più forte.
Noi le chiudiamo tutte a chiave
e non si sente più nessun rumore.
In francese un anagramma di “storie” è “sortie”, "uscita". Le storie di Appartamenti o stanze non pensano alla loro uscita o alla loro fine. Questo è paradossale in un'opera così riuscita, poiché ogni opera ha incorporata la propria fine. Ma l’accrescimento di vibrazioni che si instaura alla lettura e soprattutto con le riletture (e l'invito è quello di leggere ma soprattutto di rileggere questo libro assai breve per provarne l'effetto del ritorno sulle parole), è tratteggiato con figure di ripetizione. I testi iniziano quasi tutti con "L'uomo", "La donna" che fanno o hanno già fatto qualcosa: "L'uomo ha accompagnato il vetro / in una linea gonfia e verticale" oppure "L'uomo ha ballato e ha sudato / per tutto il tempo della festa", "La donna bianca annuisce o trema", "La donna con i capelli neri / ha sceso le scale con le braccia vuote." o apparenti nonsense come "La donna bianca adesso è una sedia". Il tempo è presente, l'enigma è il punto di vista, gli interni hanno molti vetri. Quest'ultima, al plurale o al singolare "vetro", è una parola che ricorre, dall'inizio alla fine, dove compare nell'ultima strofa della poesia conclusiva ("di giorno diresti che è solo vento / tutti i vetri che ci parlano / ma nella notte non si contano / le montagne che vedevi e che di colpo / scompaiono"). Quest'ultima poesia appartiene alla sezione "La caduta più del salto" dove letteralmente scompare il punto fermo, dove si cade più di una volta, dove il nonsense smette di essere tale e l'accesso al brain/mente di cui si diceva diventa paradossalmente più agile. Così si era aperta la poesia con la poesia intitolata "quelli cadono": "ho provato a raccontarlo il lancio la caduta / ma poi lui è caduto e cade ancora / ed è caduto lontano e io non l'ho visto / e nemmeno questo so raccontarlo".

Ecco, raccontare. Per tutto il libro quello che davvero funziona (per usare un verbo in voga nella critica, anche se non si sa mai quale accezione dare al funzionamento) è la tentazione di raccontare e descrivere spostando continuamente il punto di vista, con una creazione che potrebbe mettere in crisi qualsiasi riflessione narratologica. Si ha alla fine l'impressione di un narratore dalla testa franta che si ricompone in qualcosa che è il testo poetico, ma che continuamente rifugge la propria creazione. Nella sezione intitolata "noi siamo qui", laddove il verso si dilata in prosa, l'imbroglio pare essere già nel titolo che indica il punto di presenza, eppure leggiamo:
Da quando siamo finiti nella stanza più lontana abbiamo cominciato a sparire, uno a uno. Se non possiamo guardarla non siamo più sicuri di esistere. Alcuni non ce la fanno, hanno paura, scompaiono. L’uomo che vive con lei ogni tanto apre la porta e prova a farci uscire. Ci chiede di nascosto di tornare, ma noi siamo soltanto incrostazioni nell’intonaco e non sappiamo come fare. Se lei non viene qui scompariremo. Ad aspettarla siamo rimasti solo in due. Non so se ci siamo scelti, so soltanto che mi somiglia. L’altro sente quello che sento io, vede quello che vedo io. Presto diventeremo una cosa sola e spariremo. 
Per la cronaca il testo successivo incomincia con la proposizione "Non siamo spariti". Sempre nella sua nota l’autrice ha scritto:
Questo libro racconta una storia. Le scene di questa storia si svolgono dentro e fuori spazi che somigliano a stanze, e a volte sono appartamenti. Nella stanza gli uomini e le donne agiscono, ragionano, decidono, parlano con i loro fantasmi. Raramente sono soli. A volte è possibile immaginare che ci siano altre stanze accanto a quella, e che queste insieme costituiscano mondi appartati, universi di relazioni minime.
In apertura si è parlato di ordinario. Arrivati qui si potrà anche dire che questo libro così ben congegnato è anche un libro sull'alterità e sul suo scandalo. Non si intende qui l'alterità in senso sociologico, bensì l'opposto di identità. Si ragionava all'inizio sull'ordinario e sul suo contrario e ora proviamo a tirare in ballo il contrario dell'identità, il non-io, l'oggettività o la "realtà". Ma nemmeno qui l'opposizione è netta e in questo limbo di alterità lavorano questi versi, tanto più alle successive riletture. Vi è inoltre un dolore profondo che si può percepire a non essere X o Y o Z, altre persone insomma, ed è un dolore che in alcune poesie trova spazio. Torniamo alle persone e le loro scene, tra le quali questo libro mette in opera relazioni minime. Ciò che veicola Appartamenti o stanze di Carmen Gallo è allora il disegno di una planimetria coraggiosa del brain/mente, un colloquio coi fantasmi e persino il dolore di non essere, quasi una scottatura originale, che non è il contrario del piacere di essere (o esserci). E la scrittura prova in queste pagine molte posizioni: è distesa, in piedi, sorvola una stanza o passa all'essere accoccolata. Si entra ed esce tra muri, in ambienti nei quali volteggiando si frantumano e si ricompongono "le voci sul fondo della piazza / fatta più alta dagli alberi tagliati" (dalla poesia iniziale, che potete leggere per intero qui e dedicata a chi pensa che non abbia più senso nominare gli alberi in poesia).

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