domenica 9 aprile 2017

"La notte ha la mia voce" di Alessandra Sarchi

Avete mai visto una persona in sedia a rotelle nel tragitto che la conduce a salire in treno? Intendo dal principio, da quando può essere presa in consegna dal personale di stazione, fino al momento che la vede prendere posto nel vagone, magari dopo aver attraversato una sfaccendata folla in attesa. La domanda è la stessa che la protagonista e narratrice di La notte ha la mia voce (pp. 172, euro 16,50) rivolge a un utente di una chat line erotica. Proprio lei è in queste condizioni di disabilità, ma si pente subito dello sfogo capitato con l'ignoto cliente, che nel frattempo ha comunque riagganciato. A dir quel che è, e senza svelare troppo di questo libro, non doveva essere lei a rispondere dalla cornetta di quel buco di call center in periferia, bensì l'amica momentaneamente non operativa che l'ha trascinata fin lì ad assistere a un suo turno di lavoro (amica che fra l'altro si trova in condizioni addirittura peggiori, dal momento che è priva di una gamba che ha sostituito con una protesi che toglie e rimette con agilità). L'ultimo romanzo di Alessandra Sarchi (Reggio Emilia, 1971) può essere avvicinato come storia di un'amicizia tra due donne accomunate da una simile disgrazia eppure assai diverse, come gioco di specchi e traslazioni sui terreni del desiderio, come prova convincente sul tema del corpo (tema spesso trattato/abusato in modo bislacco in letteratura) oppure come romanzo sul tema trascurato della disabilità. Anche se Nati due volte di Pontiggia non è certo passato inosservato, non si può dire che il tema sia tra quelli più ricorrenti in tempi di romanzi "camminanti". Eppure le protagoniste - perché di due protagoniste non antagoniste si può parlare, per una volta tanto - si muovono e si arrangiano in tante azioni della quotidianità e il libro è per buona parte la scoperta di questa loro quotidianità e della strana intimità che si va creando, fino a un momento di distacco.

Le tre sezioni che scandiscono questo libro di protesi, primari, ospedali, centri riabilitativi e rotelle piroettanti, si rifanno nei titoli ai tre archetipi di Terra, Aria e Acqua. La prima sezione racchiude i momenti dell'incidente e del subito dopo, concedendosi i flashback più distanti. Potremmo chiamarla la sezione degli arti e soprattutto dei piedi, del venir meno del contatto delle piante dei piedi con il suolo, quando avviene la scoperta di quell'immensa nostalgia che si rivolge all'ingiù, verso il centro della terra, come la forza di gravità e che non è solo la nostalgia del camminare o del correre (sono i diversi tipi di linoleum, gli asfalti o altre superfici percorse dalle rotelle della carrozzina a emergere più volte tra le righe). La seconda parte intitolata all'aria è quella della voce che per questo elemento si propaga: la voce reale e professionale dell'amica impiegata al call center, vale a dire Giovanna, soprannominata Donnagatto dalla narratrice (quella stessa voce a cui fa riferimento un titolo che avrebbe potuto scegliere anche altri elementi su cui far leva per invitarci all'opera). Qui l'azione si svolge all'interno del call center, in un andirivieni di situazioni tipiche del turno di notte e di confessioni imprevedibili tra le due protagoniste che si trovano a condividere pochi metri quadri di aria viziata. La terza e brevissima sezione conclusiva si apre con la narratrice che si trova negli Stati Uniti per lavoro (è una storica dell'arte). Il distacco tra le due amiche si è consumato in modo imprevedibile e innocuo poche pagine prima. Si legge di un distacco che profuma anche di liberazione. Il titolo è Acqua: vi è l'oceano di mezzo tra il continente americano e l'Italia nella quale si appresta a ritornare. Quest'ultima parte, brevissima se confrontata con le prime due, accoglie un ulteriore motivo di interesse del romanzo: il perdersi di vista. La narratrice ritorna e pensa di ricontattare Giovanna che nel frattempo è sparita, forse in qualche spiaggia della Thailandia. In queste poche pagine si innestano le più persuasive riflessioni sul senso dell'incontro tra due persone e sul normale smarrirsi nei percorsi della vita. Il finale, che è dedicato a un'altra grande nostalgia (una metamorfosi in pesce), non mancherà di colpire per la resa immaginifica, all'interno di una riflessione che sembra quasi "relegare" l'umano bipede e in salute a un movimento su uno spazio bidimensionale, mentre non è così per i pesci (e se ci pensiamo non è così nemmeno per gli uccelli o per certi insetti, animali che si muovono davvero in uno spazio tridimensionale).

Quest'ultimo libro di Alessandra Sarchi raduna riflessioni sull'involucro del corpo e la materia onirica, sulla religione e la danza, sul senso di una memoria e del tempo tra il prima e il dopo un avvenimento esiziale, persino sull'innamoramento e sulle nuove travolgenti passioni per gli animali (senza voce). Le due protagoniste dell'opera non si caratterizzano per contrasto come avviene in molta prosa del passato dove agiscono due personaggi principali assai diversi. Sarebbe stato troppo facile. Sono diverse, si attraggono, ma la loro corrispondenza non viaggia sui binari dell'opposizione e del contrasto e nemmeno su quelli altrettanto prevedibili di una comune sorte degli arti inferiori. Ciò che convince è la precisa disposizione sulle pagine di questo profluvio ribollente di realtà handicappata. Ne esce un'opera che ha sì un punto di partenza ben preciso, ma che parimenti si apre a corolla verso una molteplicità di introspezioni e sancisce la provvisorietà di qualsiasi categorizzazione troppo sicura dell'umano, del desiderio e dei limiti-limbi tra la "nuova" vita medicalizzata a oltranza e la morte.

Nessun commento:

Posta un commento