sabato 24 giugno 2017

Jisei. Le poesie giapponesi dell'addio a cura di Ornella Civardi

"Poesia di commiato, composta nell'imminenza della morte appositamente perché sia ricordata come l'ultima, e dunque investita di un particolare rilievo. A seconda dello schema metrico e compositivo che utilizza, può essere jisei no ku (se in forma di haiku), jisei no uta (se in forma di tanka), jisei no shi (se in forma di kanshi." Questo ci ricorda l'utile "Glossario" posto in coda al volume Jisei. Poesie dell'addio da poco pubblicato da SE per la cura di Ornella Civardi (pp. 127, euro 14). Si sarebbe portati a ipotizzare sempre chissà cosa per una poesia scritta (dipinta?) in prossimità di uno dei due momenti inaggirabili della vita, il solo dei due, tra altro, in cui l'uomo abbia già fatto una certa conoscenza profonda del linguaggio. In realtà, chi leggerà questi cento componimenti che spaziano dal 900 circa (con il primo di Ono no Komachi) al 1970 (con l'ultimo di un a noi più familiare Mishima Yukio) troverà di tutto, spesso anche l'ironia colta poco prima di ributtarsi nel fiume della natura dal quale il corpo è venuto, poco prima di smettere di essere "soggetto". (Tra parentesi: verrebbe da soffermarsi su questo "soggetto": in Occidente, quanto ci interessa la letteratura come "soggettiva", "confessione", portatrice di una "visione"? Non è una critica all'Occidente, ma solo una constatazione.) E non è una pratica abbandonata quella dei jisei, se anche il regista e sceneggiatore Satoshi Kon ha fatto parlare di sé lasciando il suo jisei quando è morto nel 2010 a 47 anni. Il punto non credo sia acuire la sensibilità - o pensare a una sensibilità acuita - soltanto perché c'è di mezzo quel momento di commiato dalla vita. Se la poesia è legata tanto alla morte quanto alla vita è perché, in qualità di buco ritmico della lingua, rinvia continuamente a entrambe, o per meglio dire è entrambe. Il gesto di scrivere "l'ultima" e riporre il pennello è chiaramente un gesto dell'ambizione, di quell'ambizione stessa che è spesso travisata, ma che resta il motore immobile di ogni esistenza umana (e bisognerebbe provare a discutere a lungo dell'ambizione, io penso).

Editorialmente parlando, con questo libro ritorna il numero 100 per un libro dedicato alla poesia giapponese, come l'indimenticato Cento haiku di Guanda curato da Irene Iarocci e accompagnato da una nota ficcante di Andrea Zanzotto. 
Ornella Civardi, che ha composto questo percorso in 100 stazioni, ricorda nella sua nota conclusiva che chi avrà la pazienza di scorrere lo sterminato repertorio di jisei potrà scoprire come nel corso dei secoli si sia evoluto il gusto estetico e come queste poesie estreme rivelino l'emergere di mode e filoni letterari, mutamenti della società, della sensibilità e del rapporto con la morte. Tutto ciò si registra in un'alternanza di registri e toni, con un incremento sensibile dei componimenti di donne all'altezza del nono e decimo secolo. L'innesto del buddhismo, che in Giappone penetra verso il sesto secolo, costituirà un flusso fondamentale per lo sviluppo di questa pratica poetica così intima con il sentimento di transitorietà e trascolorazione della vita e pure con un certo languore, atteggiamento che chi frequenta la poesia giapponese, anche in traduzione, ha probabilmente ben presente. Ricorda la curatrice:
Mono no aware è letteralmente «il senso delle cose», sostanziato di empatia e nostalgia, che definisce questo sguardo languido di cui è pervasa tutta la letteratura giapponese degli inizi, incardinata sull'idea che solo la consapevolezza dell'impermanenza, e dunque dell'imminenza della perdita, possa liberare l'occhio dal velo opaco indotto dall'abitudine e renderlo finalmente limpido e profondo, capace di svelare la bellezza in tutto il suo fulgore.
Il campionario di immagini allora può andare a sovrapporsi con quello che già conosciamo dagli haiku e ci si potrà esercitare a riconoscere il kigo, la parola che colloca la poesia in un dato momento dell'anno, all'interno dei cicli della natura. In questo senso jisei è spesso poesia di commiato dal vedere e dalla vista. Qualche esempio? Ki no Tsurayuki nel 945:

Come la luna
che si compone sull'acqua
nella conca delle mani, 
questo mondo non sappiamo
se sia o se non sia.

Come ricordato, i motivi e i toni sono tanti, e con un salto al 1781 leggiamo Gessen Zenne che scrive:

Alla sbarra
        del giudizio finale
nemmeno provo
         a occultare le colpe.
L'estremo
           dei miei crimini
sarà assassinare
         il Re degli Inferi.

Oppure c'è il sorprendente jisei di Itō Enryō con la sua scimmia, e la traduzione che precisa "chiara" per l'acqua autunnale, dovendo specificare e aggiungere qualcosa che la poesia giapponese non ha bisogno di specificare quando si riferisce a "acque autunnali":


Acqua chiara d'autunno,
per smaltire la scimmia 
di questa vita.

Acque diverse infine in questo esempio di Dazai Osamu, autore del bel libro Il sole si spegne (lo trovate nel catalogo Feltrinelli), che per prendere commiato scrive:

Acque opache
dove nemmeno il glicine
specchia più i grappoli,
di questo lago battuto
dalla tempesta.

Anche se scritte appositamente per degli haiku, ritornano in mente le righe che Zanzotto dedicò alla sua frequentazione della poesia giapponese, a quel "non-rumore del senso che si affaccia dentro il nonsenso della natura quasi a volerlo preservare, perché la natura deve ‘abitare’ in esso per restare madre di tutti i sensi”. E ad un livello ulteriore, terminato questo percorso in cento tappe proposto da Ornella Civardi, giunge anche il momento di farci qualche domanda in più sul morire e su come sta cambiando. Perché magari pare di no, ma muta anche il morire (e possiamo accorgercene soltanto finché siamo in vita).

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